Nadine Quomsieh.Un femminismo che non può nominare Gaza non è femminismo.

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Questo scritto del 27 aprile 2025, di Nadine Quomsieh, femminista e narratrice palestinese nonché co-direttrice del Parents Circle Families Forum, esprime, a torto o a ragione, la solitudine che avvertono le donne palestinesi. Il testo, pubblicato su FB dalla Biblioteca Centro Documentazione Donne di Roma tradotto da La Zona Grigia (fonte, in lingua francese https://archive.md/dZBYZ ) è un atto di accusa al movimento femminista globale.


“Il femminismo celebra da tempo le vittorie dei “primati”: la prima donna a guidare, ad atterrare su un veicolo spaziale, ad abbattere le barriere costruite da patriarcato. Non sono imprese da poco. Ma cosa succede quando il femminismo diventa fluente nell’ambizione e silenzioso nell’agonia? Cosa succede quando non riesce a trovare il linguaggio per parlare di donne che partoriscono sul pavimento, che si struggono per le fosse comuni, che bollono l’erba per nutrire i propri figli, semplicemente perché sono palestinesi?

Sono una femminista. Credo profondamente nel potere, nel coraggio e nella necessità della liberazione delle donne. Ma scrivo anche come donna palestinese, osservando un movimento femminista globale che spesso si libra verso le stelle mentre cammina sulle macerie sotto i suoi piedi.

A Gaza, le donne non chiedono posti nei consigli di amministrazione o missioni su Marte. Chiedono pane, acqua, sapone, un assorbente. Che i loro figli si sveglino la mattina. Se il nostro femminismo non riesce a dare spazio a questa realtà, se non si ferma ad ascoltare le voci sotto le macerie, allora cosa stiamo costruendo, e per chi è veramente?

In un rifugio, una madre ha strappato strisce dal vestito della figlia per usarle come assorbenti. Un’altra le ha foderato le scarpe con del cartone, sanguinando in silenzio, per non macchiare il pavimento. Queste non sono metafore: sono i martedì mattina a Gaza. Eppure, troppo spesso, restano inespresse nelle sale della solidarietà femminista internazionale.

Le donne palestinesi non aspettano di essere salvate. Sono insegnanti, medici, giornaliste, poetesse, assistenti e protettrici della vita. Anche quando le loro case crollano, organizzano file per il cibo, raccontano storie e ricuciono qualsiasi frammento di normalità riescano a trovare. La loro Resistenza non è sempre clamorosa, ma è instancabile. Essere testimoni di tutto questo e continuare a parlare di “emancipazione femminile” senza includerle, questo non è emancipazione. Questo è Cancellazione.

Ci viene detto che il femminismo riguarda la scelta. Ma per molte donne in Palestina, la scelta è stata portata via: non solo dal patriarcato, ma dall’Occupazione, dalla guerra e dal rifiuto del mondo di vederci. Cos’è la libertà di scelta quando non puoi scegliere di fare il bagno a tuo figlio, di andare a scuola o di vivere senza paura?

Questo non è un rimprovero. È una chiamata. Un appello a un femminismo che non ha paura del disagio. Che non distoglie lo sguardo dal sangue sul pavimento perché non può rientrare in una campagna edulcorata. Un femminismo che ricorda le sue radici: Resistenza, Solidarietà, Giustizia, non solo rappresentanza.

Perché il femminismo che non parla quando le donne muoiono di fame sotto assedio non è femminismo. Il femminismo che non piange quando le ragazze vengono estratte dalle macerie non è femminismo. E il femminismo che non sa nominare Gaza non è femminismo. È prestazione.

Quindi chiedo, con amore, non con rimprovero: può il nostro movimento globale estendersi abbastanza da contenere il dolore, la forza e la verità delle donne palestinesi? Può inginocchiarsi accanto a noi, ascoltarci, stare al nostro fianco, non perché siamo impeccabili, ma perché siamo umane?

Perché anche qui vive la lotta. Anche qui inizia la liberazione”.

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