Reportage. Il Libano senza Nasrallah, ma non senza Hezbollah

Camminare, parlare con la gente, osservare. Dalla missione in Libano di febbraio 2025 per ULAIA ODV nascono queste parole e queste immagini di Dahiyeh, il quartiere di Beirut roccaforte Hezbollah maggiormente bombardato da Israele. Le ha pubblicate Micropolis di Aprile 2025, il mensile de Il Manifesto umbro (un refuso di impaginazione le attribuisce a Marianna Fiorentino). Ne riportiamo la pagina modificata, con l’articolo di Giovanna Nigi e Maurizio Giacobbe “Lo schermo rivelatore” che ci porta a Gaza dove le verità emergono dal piccolo schermo di un cellulare o dal grande schermo di un cinema.
Il Libano senza Nasrallah, ma non senza Hezbollah
Olga Ambrosanio, ULAIA ArteSud ODV
Da poco sono rientrata dalla missione in Libano per l’associazione di volontariato che presiedo. Per molti mesi ho seguito dall’Italia il susseguirsi degli scontri al confine tra Hezbollah e Israele, temendo il peggio, e il peggio è poi arrivato.
Al confine non era permesso andare, ma i racconti della gente sfollata a Tiro, la prima città grande venendo dal Sud, sono stati sufficienti a figurarsi gli scenari, simili a quelli che abbiamo conosciuto dalle immagini della distruzione di Gaza. Le persone scampate mi mostravano, ancora terrorizzate, l’ormai noto macabro avvertimento di evacuazione ricevuto sul cellulare: la mappa della zona in procinto di essere bombardata e il cerchio rosso sull’edificio target dell’operazione. Si sfolla senza pensare di portar via nulla se non la propria pelle, e anche quella si perde, talvolta, quando si pensa di poter tornare sul posto per recuperare qualcosa e si trova, invece, l’immancabile cecchino zelante che ti fa fuori! Anche questo è accaduto al Sud del Libano ai vicini dei miei interlocutori. Il tempo consentito per l’evacuazione scandito nei messaggi telefonici man mano si è ridotto, fino ad annullarsi del tutto nella notte tra lo scorso 31 marzo e l’1 aprile, quando, ormai a tregua infranta anche qui da parte di Israele, l’esercito ha bombardato un edificio a Beirut per uccidere un quadro Hezbollah, Hassan Bdeir. Quattro morti e sette feriti l’effetto collaterale.
La flebile protesta del presidente del Libano Joseph Aoun, ha più il sapore di un atto dovuto verso il popolo libanese, anziché di una reazione all’aggressione, giacché il Libano sta di fatto tollerando la prosecuzione dei bombardamenti al Sud e lo schieramento di postazioni israeliane in cinque punti strategici del Sud anche oltre la Linea Blu. Una politica “docile” molto preoccupante di fronte alle affermazioni dello scorso luglio di Avigdor Lieberman, membro della Knesset, “tutto tra il fiume Litani e Israele deve essere sotto il controllo dell’IDF”, dichiarazione che strizza l’occhio al movimento della destra ultra religiosa “Uri Tsafon”, che preme non solo per annettere a Israele la fascia meridionale del Libano, ma per colonizzarlo. Il Libano, sostengono, è “semplicemente il nord della Galilea” e solo la presenza di insediamenti potrà garantire “la sicurezza di Israele” e restituire allo Stato ebraico i suoi “confini biblici” (1). Lo scorso dicembre il gruppo è passato dalle parole ai fatti montando tende e piantando alberi nei pressi del villaggio libanese diMaroun al-Ras, oltre la Linea Blu. Il gesto, simbolico ma eloquente, è stato di breve durata per l’intervento dell’IDF che ha fatto liberare la zona posta sotto il loro controllo negli accordi del cessate il fuoco.
La maggior parte delle famiglie al Sud del Libano sono agricoltori che vivevano dei prodotti della terra, degli ulivi e degli agrumi di cui quella zona è piena. Tutto incenerito. Gli animali domestici, anch’essi polverizzati. Non rimane più nulla. E di cosa vivrà la popolazione scampata, oggi alloggiata da parenti e amici o in alloggi di fortuna? Come ricominciare? Lo Stato libanese, si sa, è in bolletta da anni. Non ci si può aspettare nulla dal Governo, e tantomeno possono sperarlo i palestinesi che vivevano fuori dai campi ufficiali.
L’aiuto, nonostante tutto, sembra che possa venire ancora da Hezbollah nonostante le perdite subite. Così chi ha subito danni si avvicina agli uffici che Hezbollah ha aperto quasi in ogni villaggio del Sud raso al suolo, dove la popolazione, anche se non appartenente allo stesso gruppo politico, può denunciare le perdite subite. Dopo il sopralluogo e i dovuti accertamenti gli incaricati decidono la cifra del ristoro, alla quale, mi dicono, si può anche fare ricorso se la si giudica insufficiente.
A sentire ciò non sembra un partito annientato, almeno non sotto l’aspetto dell’organizzazione. Innegabile, invece, la difficoltà dell’ala militare e della linea di comando chiaramente infiltrata, come hanno dimostrato i fatti che hanno anche di fatto demolito il leggendario riserbo degli appartenenti alla milizia. Ancora oggi, però, percorrendo la zona Sud di Burj al Barajne, anch’essa martoriata dai bombardamenti, il mio accompagnatore guardando la foto di un martire sui resti di un edificio colpito, mi dice, chiamandolo per nome, che nessuno degli abitanti di quel palazzo era al corrente del coinvolgimento di quel ragazzo tra gli Hezbollah. Mi guardo bene dal fotografare quelle macerie prima di aver ricevuto il consenso del loro delegato di zona perché anche qui, a Burj al Barajne, è proibito scattare foto. Questo l’ho imparato a mie spese dopo essere stata fermata da persone di Hezbollah per lo stesso motivo nella zona di Dayhieh, periferia Sud di Beirut, ed aver corso un serio rischio in quanto hanno dubitato della regolarità del mio ingresso nel Paese. Colpa del timbro di entrata sul passaporto, non ben visibile perché apposto in mezzo a una quantità di visti di entrata e di uscita dal Libano degli anni precedenti. Mi è costato una sosta di un’ora e mezzo in attesa che terminassero le verifiche.
Ma si può davvero pensare di distruggere con le armi un movimento di resistenza? La questione è molto dibattuta in questo periodo e molti opinionisti e psicologi si esprimono per il no. Gli ingredienti della resistenza non sono solo le persone, ma il pensiero, l’ideologia, la disposizione al sacrificio, e questi elementi risorgeranno sempre nelle nuove generazioni se non si elimina alla radice il problema per cui gli stessi movimenti sono nati. La “chiave” è sempre il dialogo tra le parti, in Libano tra HZB e gli altri attori politici interni. Purtroppo, però, la forte presenza di attori internazionali con interessi contrastanti nella politica libanese ha accentuato il problema anziché risolverlo, arroccati, come sono stati finora, sul disarmo di HZB previsto dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU N. 1701/2006 mentre la debolezza dell’esercito regolare libanese non faceva altro che convincere la popolazione, sia essa sunnita o sciita, che HZB era l’unico baluardo alla difesa nazionale. Con l’ascesa del movimento a partito politico, che, come tutti gli altri partiti in Libano fornisce in maniera ampia servizi alla comunità, la popolazione ha regalato ad HZB 12 seggi alle legislative del 2018 e 15 nel 2022 determinando l’inclusione del partito di Dio nello scenario politico.
La situazione attuale forse suggerirebbe di avviare un dialogo anche sull’inclusione militare di Hezbollah nello Stato libanese, ma questo non può prescindere dall’imperativo di rimuovere le condizioni di partenza che hanno portato alla creazione del movimento e su cui si basa la sua stessa esistenza: difendere il Paese dagli attacchi israeliani e dalle mire espansionistiche di Israele. Saprà, o meglio potrà, fare sua questa pre-condizione il nuovo Presidente Joseph Aoun, eletto il 9 gennaio 2025 con il beneplacito delle grandi potenze? Saprà Nawaf Salam, nuovo primo ministro del Libano, importante diplomatico e già presidente della Corte internazionale di giustizia (Cig) utilizzare il suo peso per aprire una mediazione? E il nuovo Segretario Generale di Hezbollah, Naim Qassem, avrà la statura che avrebbe avuto Nasrallah in una trattativa di questa portata?
Il vuoto lasciato dagli edifici in macerie è pari al vuoto che il Segretario Generale di Hezbollah ha lasciato non solo nei suoi seguaci ma in tutti coloro che lo avevano conosciuto, capi di Stato, diplomatici, gente comune che è intervenuta ai suoi funerali. La mancanza di Sayyed Hassan Nasrallah pesa come un macigno non solo a livello politico, ma tra la gente. Il rispetto di cui godeva quest’uomo ha fatto del luogo dove è stato ritrovato il suo corpo un luogo con “divieto di accesso” tra le macerie delimitato da un nastro che racchiude la sua immagine sorridente. Il mausoleo che gli è stato dedicato nella sua martoriata Dayihe, alla periferia diBeirut, un luogo di pellegrinaggio destinato a perdurare nel tempo, di seguaci e di gente comune, sciiti o sunniti, libanesi e palestinesi.
(1) https://jewishcurrents.org/inside-the-movement-to-settle-southern-lebanon-uri-tzafon-israel
Lo schermo rivelatore
Giovanna Nigi, Maurizio Giacobbe
“E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile.” Bertolt Brecht – da L’eccezione e la regola, 1930
E’ chiaro a tutti, anche a coloro che tacciono per salvaguardare interessi e posizioni, che con la violazione della tregua voluta da Israele e la ripresa dei bombardamenti indiscriminati, dei massacri di civili, e in particolare di bambini, personale sanitario e reporter, la sopravvivenza a Gaza diventa ogni giorno più difficile.
Nei mesi scorsi, su queste pagine, con numeri e immagini, abbiamo denunciato: la distruzione sistematica di scuole e ospedali, la grave carenza di aiuti umanitari, la prefigurazione di un futuro della Palestina senza palestinesi. Oggi questa follia supera i limiti dell’immaginabile:
l’attacco all’ospedale Al Ahli, ultimo funzionante di Gaza City, a medici infermieri e parenti dei ricoverati sono stati concessi 18 minuti per sgombrare tutti i reparti; nell’evacuazione forzata alcuni malati sono morti per mancanza di ossigeno o di altri presidi sanitari; gli aiuti umanitari sono bloccati da un mese e mezzo; la propaganda continua a negare i crimini commessi dall’esercito di occupazione.
L’uccisione a freddo dei 15 soccorritori di Mezzaluna Rossa, Protezione Civile e ONU intercettati durante una missione di soccorso, ammazzati e sepolti con i resti dei loro mezzi, giustificata con l’affermazione che erano irriconoscibili perché viaggiavano senza lampeggianti, è stata smentita dal piccolo schermo del cellulare di un soccorritore ritrovato nella fossa comune accanto al suo corpo: conteneva il video degli ultimi minuti della missione: tutto il contrario di ciò che il portavoce militare aveva affermato.
Schermi più grandi, quelli del cinema documentario, da anni restituiscono, a chi le vuole vedere, le verità a lungo negate, rimosse o falsificate dalla propaganda sionista. Nel mese di marzo, registi di tutto il mondo hanno reso disponibili in rete molte opere cinematografiche che testimoniano il calvario del popolo palestinese. E’ facile immaginare che la loro visione abbia interessato fasce ristrette di persone; quello che invece ha raggiunto il grande pubblico è il film No Other Land, vincitore dell’Oscar per il cinema documentario, nato dal lavoro collettivo dei registi e sceneggiatori Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor, i primi due palestinesi, gli altri israeliani.
Il film testimonia le violenze, le vessazioni, le demolizioni cui è sottoposta la comunità di Masafer Yatta, villaggio del governatorato di Hebron, per mano dei coloni con la copertura dell’esercito di occupazione. La didascalia finale chiarisce che le immagini del film sono state girate prima del 7 ottobre 2023; le violenze non sono una risposta a quell’attacco, ma una prassi consolidata negli anni per cacciare la comunità palestinese dalle proprie terre. Israele ha risposto con rabbia affermando, per bocca del ministro della Cultura, che il film “distorce l’immagine di Israele nel mondo”. E già, la verità fa male, si sa! Alla violenza verbale del ministro ha fatto eco la violenza fisica dei coloni, che hanno aggredito, picchiato selvaggiamente e ferito uno dei registi palestinesi, Hamdan Ballal, successivamente arrestato dalle forze di sicurezza israeliane. La notizia ha sollevato proteste un po’ ovunque e costretto la polizia israeliana a rilasciarlo il giorno successivo.
L’edizione 2025 del Festival del giornalismo di Perugia ha omaggiato il film presentandolo il 10 aprile all’Auditorium San Francesco al Prato. Nello stesso auditorium, il giorno successivo, un altro documentario agghiacciante, A State of Passion, ha squarciato il velo di rimozioni, silenzi e falsità sulle operazioni genocidarie a Gaza raccontando la storia di Ghassan Abu Sittah, chirurgo plastico e ricostruttivo anglo-palestinese, e del suo lavoro nei pronto soccorso degli ospedali Al Shifa e Al Ahli di Gaza, un catalogo di orrori: corpi lacerati, amputazioni senza anestesia, bambini orfani senza più una famiglia, e il deliberato attacco contro medici e strutture ospedaliere. Il dottor Ghassan è oggi uno dei volti più noti della resistenza palestinese e la forza che sostiene il suo impegno, e quello delle registe Carol Mansour e Muna Khalidi, sta nella comune passione per le sorti della Palestina.
Questo vede oggi il mondo: l’uccisione di 222 giornalisti e reporter palestinesi non è bastata ad oscurare la follia genocida e distruttiva dell’esercito di occupazione a Gaza.